|
usa, egemonia ad ogni costo
Terrorismo,
l'arma dei potenti
«Come mai - si chiede il presidente Bush - siamo così odiati», quando
siamo «così buoni»? I leader statunitensi continuano a non curarsi
degli effetti a lungo e medio termine della loro politica estera,
che li spinge ad usare qualsiasi mezzo per imporre al mondo la propria
supremazia. Il finanziamento da parte dell'amministrazione Reagan
della contro-rivoluzione anti-sandinista in Nicaragua (57mila vittime),
l'aiuto militare alla «lotta contro il terrorismo» condotta dal governo
di Ankara contro i kurdi (due-tre milioni di rifugiati, decine di
migliaia di vittime, 350 città e villaggi distrutti), il sostegno
incondizionato all'occupazione israeliana dei territori palestinesi
sono tutti episodi che mostrano come i dirigenti statunitensi non
si facciano alcuno scrupolo ad appoggiare pratiche di violenza calcolata
e «guerre di bassa intensità» che possono essere equiparate al terrorismo.
Ma, come mostra efficacemente la parabola di Osama bin Laden, i loro
successi di ieri possono essere scontati successivamente ad un prezzo
altissimo. Bin Laden è il prodotto della vittoria statunitense contro
i sovietici in Afghanistan: quale sarà il costo del loro nuovo trionfo
in questo paese?
di Noam Chomsky*
Dobbiamo partire da due postulati. Primo, che gli avvenimenti dell'11
settembre costituiscono una atrocità spaventosa, probabilmente la
maggiore perdita simultanea di vite umane della storia, guerre escluse.
Il secondo postulato è che dovremmo porci l'obiettivo di ridurre
il rischio che possano ripetersi tali attentati, siano essi rivolti
contro di noi o contro altri. Se non accettate questi due punti di
partenza, tutto quello che segue non vi riguarda; se invece li accettate,
si pongono molti altri problemi.
Cominciamo dalla situazione in Afghanistan. In tale paese vi sarebbero
milioni di persone minacciate dalla carestia. Questo era già vero
prima degli attentati: sopravvivevano soprattutto grazie all'aiuto
internazionale. Ma, il 16 settembre, gli Stati uniti hanno imposto
al Pakistan di sospendere i convogli di automezzi che portavano cibo
e altri generi di prima necessità alla popolazione afghana. Tale
decisione non ha provocato alcuna reazione in Occidente e il ritiro
di personale umanitario ha reso ancora più problematica l'assistenza
della popolazione. Una settimana dopo l'inizio dei bombardamenti,
le Nazioni unite ritenevano che l'avvicinarsi dell'inverno avrebbe
reso impossibile l'invio di cibo, già ridotto al lumicino dai raid
dell'aviazione americana.
Quando alcune organizzazioni umanitarie civili o religiose e lo stesso
portavoce della Fao hanno chiesto una sospensione dei bombardamenti,
tale notizia non è stata neppure riferita dal New York Times; il
Boston Globe se l'è cavata con appena una riga, ma all'interno di
un articolo dedicato a un altro argomento, cioè alla situazione nel
Kashmir. Nell'ottobre scorso, la civiltà occidentale si era rassegnata
al rischio di veder morire centinaia di migliaia di afghani. Nello
stesso momento, il leader di tale civiltà faceva sapere che non si
sarebbe degnato di rispondere alle proposte afghane di negoziare
sulla questione della consegna di Osama bin Laden, né sulla richiesta
di una prova su cui fondare una possibile decisione di estradizione.
Avrebbe accettato soltanto una capitolazione senza condizioni.
Ma torniamo all'11 settembre. Nessun crimine, nulla ha fatto più
morti nella storia - o soltanto su tempi molto più lunghi. Peraltro,
questa volta le armi hanno puntato su un bersaglio insolito: gli
Stati uniti. L'analogia così spesso evocata con Pearl Harbor non
è appropriata. Nel 1941 l'aviazione nipponica ha bombardato alcune
basi militari in una colonia di cui gli Stati uniti si erano impadroniti
in condizioni poco raccomandabili; i giapponesi non avevano attaccato
direttamente il territorio americano.
In questi ultimi due secoli, noi americani abbiamo scacciato o sterminato
popolazioni di indios - milioni di persone - conquistato la metà
del Messico, saccheggiato le regioni dei Caraibi e dell'America centrale,
invaso Haiti e le Filippine, uccidendo in quest'ultima occasione
anche 100mila filippini. Poi, dopo la seconda guerra mondiale, abbiamo
esteso il nostro dominio sul mondo nella maniera ben nota. Ma quasi
sempre eravamo noi ad uccidere e il combattimento avveniva al di
fuori del nostro territorio nazionale.
Ma, come si ha modo di constatare quando ci fanno domande, ad esempio,
sull'Ira e sul terrorismo, le domande dei giornalisti sono molto
diverse, a seconda che riguardino una sponda o l'altra del mare di
Irlanda. In generale, il pianeta appare sotto tutt'altra luce a seconda
che si impugni da molto tempo la frusta o che si sia abituati a subirne
i colpi nel corso dei secoli. Forse è per questo, in fondo, che il
resto del mondo, pur dimostrando un orrore senza eccezioni di fronte
alla sorte delle vittime dell'11 settembre, non ha reagito come abbiamo
reagito noi agli attentati di New York e di Washington.
Per comprendere gli avvenimenti dell'11 settembre, occorre operare
una distinzione fra gli esecutori del crimine e l'area diffusa di
comprensione di cui ha goduto tale crimine, anche fra i suoi oppositori.
Gli esecutori? Supponendo che si tratti della rete di bin Laden,
nessuno conosce la genesi di questo gruppo fondamentalista meglio
della Cia e dei suoi accoliti, che ne hanno tanto incoraggiato la
nascita. Zbigniew Brzezinski, segretario alla sicurezza nazionale
dell'amministrazione Carter, si è addirittura felicitato della «trappola»
tesa ai sovietici nel 1978, manovrando gli attacchi dei mujaheddin
(organizzati, armati e addestrati dalla Cia) contro il regime di
Kabul: una manovra che ha spinto alla fine dell'anno successivo i
sovietici ad invadere il territorio afghano. Solo dopo il 1990 e
dopo l'installazione di basi americane permanenti in Arabia saudita,
su una terra sacra all'Islam, questi combattenti sono diventati nemici
degli Stati uniti.
Adesso, se si vuole spiegare l'area diffusa di simpatia di cui godono
le reti di bin Laden, anche fra le classi dominanti dei paesi del
Sud del mondo, occorre considerare innanzitutto la collera che suscita
l'appoggio degli Stati uniti a regimi autoritari o dittatoriali di
ogni sorta; occorre ricordarsi della politica americana che ha distrutto
la società irachena consolidando nel contempo il regime di Saddam
Hussein; occorre non dimenticare l'appoggio costante di Washington
all'occupazione israeliana dei territori palestinesi dal 1967 ad
oggi. Nel momento in cui gli editoriali del New York Times lasciano
intendere che «loro» ci detestano perché noi difendiamo il capitalismo,
la democrazia, i diritti umani, la separazione fra stato e chiesa,
il Wall Street Journal, meglio informato, dopo aver parlato con banchieri
e alti dirigenti non occidentali ci spiega che «ci» detestano perché
abbiamo ostacolato la democrazia e lo sviluppo economico - e appoggiato
regimi brutali, o addirittura terroristici.
Fra le alte sfere dell'Occidente, la guerra contro il terrorismo
è stata equiparata ad una «lotta contro un cancro diffuso dai barbari».
Ma queste parole e questa priorità sono tutt'altro che nuove; ne
parlavano già venti anni fa il presidente Ronald Reagan e il suo
segretario di stato Alexander Haig. E per combattere i nemici depravati
della civiltà, all'epoca il governo americano organizzò una rete
terroristica internazionale di dimensioni senza precedenti. E, se
tale rete commise atrocità innumerevoli da un capo all'altro del
pianeta, il massimo impegno venne dedicato all'America latina.
Il diritto internazionale è debole
Un caso, quello del Nicaragua, è incontestabile: e infatti è stato
risolto dalla Corte internazionale di giustizia dell'Aja e dalle
Nazioni unite. Chiedetevi pure quante volte questo precedente indiscutibile
di un'azione terroristica a cui uno stato di diritto ha voluto rispondere
con i mezzi del diritto sia stato richiamato dai commentatori più
in voga. Eppure, si trattava di un precedente ancora più estremo
degli attentati dell'11 settembre: la guerra dell'amministrazione
Reagan contro il Nicaragua ha provocato 57mila vittime, fra cui 29mila
morti (gli altri sono feriti o mutilati), e la rovina di un intero
paese, forse in maniera irreversibile (si legga alle pagine 16 e
17).
All'epoca, il Nicaragua aveva reagito. Non facendo esplodere bombe
a Washington, bensì appellandosi alla Corte internazionale di giustizia.
E la Corte decise, il 27 giugno 1986, dando ragione alle autorità
di Managua. Condannò «l'uso illegale della forza» da parte degli
Stati uniti (che avevano minato i porti del Nicaragua) e ingiunse
a Washington di porre fine al crimine, senza dimenticare di pagare
danni e interessi rilevanti. Gli Stati uniti replicarono che non
si sarebbero piegati a tale giudizio e che non avrebbero più riconosciuto
la giurisdizione della Corte.
Allora il Nicaragua chiese al Consiglio di sicurezza dell'Onu l'adozione
di una risoluzione secondo cui tutti gli stati erano tenuti a rispettare
il diritto internazionale. Non si citava nessuno stato in particolare,
ma il messaggio era evidente. Gli Stati uniti esercitarono il loro
diritto di veto contro questa risoluzione. A tutt'oggi sono quindi
l'unico stato che sia stato condannato dalla Corte internazionale
di giustizia e che nel contempo si sia opposto a una risoluzione
che chiedeva il rispetto del diritto internazionale. Dopo di che,
il Nicaragua si rivolse all'Assemblea generale dell'Onu. La risoluzione
proposta ottenne soltanto tre voti negativi: quelli degli Stati uniti,
di Israele e del Salvador. L'anno successivo il Nicaragua richiese
di votare sulla stessa risoluzione. Stavolta, soltanto Israele appoggiò
la causa dell'amministrazione Reagan. Arrivato a questo punto, il
Nicaragua aveva esaurito tutti i mezzi giuridici a sua disposizione,
e tutti erano falliti, in un mondo dominato dalla forza. Questo precedente
non lascia adito a dubbi. Quante volte se ne è parlato, all'università,
sui giornali?
Si tratta di una vicenda per molti aspetti rivelatrice. Innanzitutto
rivela che il terrorismo funziona. E anche la violenza. In secondo
luogo che ci si sbaglia a considerare il terrorismo uno strumento
dei deboli. Come la maggior parte delle armi di morte, il terrorismo
è soprattutto l'arma dei potenti; quando si sostiene il contrario,
ciò avviene unicamente perché i potenti controllano anche gli apparati
ideologici e culturali che consentono di far passare il terrore per
qualcosa di diverso. Uno dei mezzi più correnti di cui dispongono
per ottenere tale risultato consiste nel far scomparire la memoria
degli avvenimenti di disturbo; in tal modo, nessuno se ne ricorda.
Del resto, la potenza della propaganda e delle dottrine americane
è talmente grande da imporsi alle sue stesse vittime. Andate in Argentina,
e vedrete che dovrete essere voi a rievocare certi fatti. Allora
vi diranno: «Ah, sì, ma lo avevamo dimenticato!».
Nicaragua, Haiti e Guatemala sono i tre paesi più poveri dell'America
latina. Figurano anche tra i paesi in cui gli Stati uniti sono intervenuti
manu militari, il che non è necessariamente una coincidenza fortuita.
Tutto ciò avvenne in un clima ideologico contrassegnato dai proclami
entusiasti degli intellettuali occidentali. Qualche anno fa, l'autocompiacimento
faceva furore: fine della storia, nuovo ordine mondiale, stato di
diritto, ingerenza umanitaria e via dicendo. Era moneta corrente,
proprio mentre lasciavamo che si commettessero atrocità innumerevoli.
Anzi, peggio, davamo un nostro contributo attivo. Ma chi ne parlava?
Una delle più grandi conquiste della civiltà occidentale consiste
forse nel rendere possibile questo tipo di incongruenza in una società
libera. Uno stato totalitario è privo di questo dono.
Che cosa è il terrorismo? Nei manuali militari americani, si definisce
terrore l'uso calcolato a fini politici o religiosi della violenza,
della minaccia di violenza, dell'intimidazione, della coercizione
o della paura. Il problema di una simile definizione è che essa coincide
abbastanza precisamente con quello che gli Stati uniti hanno definito
guerra di bassa intensità, rivendicando questo genere di attività.
D'altronde, nel dicembre 1987, allorché l'Assemblea generale dell'Onu
ha adottato una risoluzione contro il terrorismo, c'è stata una sola
astensione, quella dell'Honduras, e due voti contrari, quelli di
Israele e degli Stati uniti. Perché lo hanno fatto? A causa di un
paragrafo della risoluzione che precisava che non si intendeva rimettere
in discussione il diritto dei popoli a lottare contro un regime colonialista
o contro una occupazione militare.
Orbene, all'epoca il Sudafrica era alleato degli Stati uniti. Oltre
agli attacchi contro i paesi limitrofi (Namibia, Angola, ecc.) che
hanno provocato centinaia di migliaia di morti e causato danni nell'ordine
di 60 miliardi di dollari, il regime dell'apartheid di Pretoria doveva
affrontare all'interno del paese una forza definita «terrorista»:
l'African National Congress (Anc). Quanto a Israele, occupava illegalmente
alcuni territori palestinesi fin dal 1967, altri in Libano fin dal
1978, guerreggiando nel sud del Libano contro una forza che Israele
stesso e gli Stati uniti tacciavano di «terrorismo»: gli Hezbollah.
Nelle analisi abituali del terrorismo, questo tipo di informazione
o di richiamo non è frequente; affinché le analisi e gli articoli
dei giornali siano ritenuti rispettabili, conviene in realtà schierarsi
dalla parte giusta, ossia dalla parte di chi dispone delle armi più
potenti.
Gli inglesi non distruggono Boston
Negli anni '90 i peggiori attacchi contro i diritti umani sono stati
riscontrati in Colombia. Tale paese è stato il principale destinatario
dell'aiuto militare americano, ad eccezione di Israele e dell'Egitto,
che costituiscono due casi a sé. Fino al 1999, il primo posto spettava
alla Turchia, a cui gli Stati uniti hanno consegnato una quantità
crescente di armi fin dal 1984. Perché proprio quell'anno? Non perché
questo paese, membro della Nato, dovesse affrontare l'Unione sovietica,
già allora in fase di disfacimento, ma affinché potesse portare avanti
la guerra terroristica che aveva iniziato contro i kurdi. Nel 1997,
l'aiuto militare americano alla Turchia ha superato quello che il
paese aveva ottenuto in negli anni dal 1950 al 1983, cioè il periodo
della guerra fredda. Risultato delle operazioni militari: da 2 a
3 milioni di rifugiati, decine di migliaia di vittime, 350 città
e villaggi distrutti. Man mano che la repressione si intensificava,
gli Stati uniti continuavano a fornire quasi l'80% delle armi utilizzate
dai militari turchi, accelerando addirittura il ritmo delle consegne.
La tendenza si è ribaltata nel 1999, allorché il terrore militare
- naturalmente denominato «controterrorismo» dalle autorità di Ankara
- aveva conseguito i suoi obiettivi. Succede quasi sempre così quando
il terrore è gestito dai suoi principali utilizzatori, cioè dalle
forze al potere.
Nel caso della Turchia, gli Stati uniti hanno trovato un paese tutt'altro
che ingrato. Washington le aveva dato gli F-16 per bombardare la
sua popolazione e la Turchia li ha utilizzati nel 1999 per bombardare
la Serbia. Poi, pochi giorni dopo l'11 settembre, il primo ministro
turco Bülent Ecevit ha fatto sapere che il suo paese avrebbe partecipato
con entusiasmo alla coalizione americana contro la rete di bin Laden.
In tale occasione, il primo ministro spiegò che la Turchia aveva
un debito di gratitudine nei confronti degli Stati uniti, che risaliva
alla sua «guerra contro il terrorismo» e all'appoggio incondizionato
che era stato assicurato da Washington.
Certo, anche altri paesi avevano sostenuto la guerra di Ankara contro
i kurdi, ma nessuno con zelo ed efficacia paragonabili a quelli degli
Stati uniti. L'appoggio dei turchi ha goduto del silenzio, e forse
è più giusto dire del servilismo, degli ambienti colti americani,
che non potevano certo ignorare le vicende in corso. Gli Stati uniti
dopo tutto sono un paese libero e i rapporti delle organizzazioni
umanitarie sulla situazione in Kurdistan erano di dominio pubblico.
All'epoca, quindi, abbiamo deciso di dare il nostro contributo alle
atrocità.
La nostra coalizione contro il terrorismo comprende altre reclute
di prima scelta. Il Christian Science Monitor, probabilmente uno
dei migliori giornali sull'attualità internazionale, ha rivelato
che alcuni popoli che non amavano affatto gli Stati uniti cominciavano
a rispettarli di più, particolarmente felici di vederli alla testa
di una guerra contro il terrorismo. Il giornalista, che peraltro
era uno specialista dell'Africa, citava come esempio simbolo di questa
svolta il caso dell'Algeria. Eppure, doveva sapere che l'Algeria
conduce una guerra terroristica contro il suo stesso popolo. Altri
due paesi che hanno abbracciato la causa americana sono la Russia,
che porta avanti una guerra terroristica in Cecenia, e la Cina, autrice
di una serie di atrocità contro quelli che definisce i secessionisti
musulmani.
Sia pure: ma che fare nella situazione attuale? Un radicale estremista
come il Papa suggerisce di ricercare i colpevoli del crimine dell'11
settembre per sottoporli a giudizio. Ma gli Stati uniti non desiderano
ricorrere alle forme giudiziarie normali, preferiscono non dover
addurre alcuna prova, e si oppongono all'esistenza di una giurisdizione
internazionale. Anzi, quando Haiti chiede l'estradizione di Emmanuel
Constant, giudicato responsabile della morte di migliaia di persone
dopo il colpo di stato che ha rovesciato il presidente Jean-Bertrand
Aristide il 30 settembre 1991, e presenta prove della sua colpevolezza,
la richiesta non sortisce alcun effetto a Washington, e non suscita
alcun dibattito.
Per lottare contro il terrorismo è necessario ridurre il livello
del terrore, e non aumentarlo. Allorché l'esercito repubblicano irlandese
(Ira) commette un attentato a Londra, gli inglesi non distruggono
né Boston, città in cui l'Ira conta numerosi sostenitori, né Belfast.
Cercano i colpevoli, e poi li giudicano. Un mezzo per ridurre il
livello del terrore consisterebbe nel cessare di contribuirvi noi
stessi. Per poi riflettere sugli orientamenti politici che hanno
creato un'area diffusa di appoggio, di cui hanno poi approfittato
i mandanti dell'attentato. In queste ultime settimane, la presa di
coscienza dell'opinione pubblica americana sulle realtà internazionale
di ogni sorta, di cui prima solo le élite sospettavano l'esistenza,
costituisce forse un passo avanti in questa direzione.
note:
* Professore al Massachusetts Institute of Technology (Mit) di Boston.
Questo testo è tratto da una conferenza svoltasi all'Mit il 18 ottobre
scorso. Noam Chomsky è autore di numerose libri, fra cui 11 settembre.
Le ragioni di chi?, Marco Tropea editore, 2001.
(Traduzione di R. I.)
|
aa
|
|
qq |
Il nuovo volto del mondo
di Ignacio Ramonet
Terrorismo,
l'arma dei potenti
di Noam Chomsky*
Contro Naipaul
di Pascale Casanova*
Globalizzazione a tappe forzate
di BERNARD CASSEN e FRÉDÉRIC F. CLAIRMONT *
L'euro e i suoi
tristi simboli
di Bruno Théret*
Lo spirito dell'Unione
nasce asimmetrico
di
Dominique Pilhon *
La Russia alle prese
col passato sovietico
di Moshe Lewin*
I dirigenti del Golfo tra due fuochi
dal nostro inviato speciale Éric Rouleau*
Territori sotto assedio
di AMIRA HASS*
Filmare la morte in Palestina
Dominique Godrèche
Gioco triangolare
fra Washington, Mosca e Pechino
di Gilbert Achcar*
L'odissea degli abitanti di Diego Garcia
HAKIM MALAISE
Giornalista, La Réunion
In Pakistan, quale islam
per quale nazione?
di JEAN-LUC RACINE*
Le ambiguità
di un alleato troppo strategico
di
Kurt Jacobsen e Sayeed Hasan Khan *
Un'occasione perduta
per il Nicaragua
di François Houtart*
«Contras» e «compas»
due facce della stessa amarezza
dalla nostra inviata speciale Raphaëlle Bail*
Disastro sociale
Bolanos presidente
Il boom dei pentecostali nel Sud del mondo
di ANDRÉ CORTEN *
Harry Potter spiegato ai genitori
di SERGE TISSERON *
L'Oil, un'organizzazione
al servizio dei lavoratori
La globalizzazione capitalistica contro l'occupazione
di Michel Husson*
Un «lavoro decente» per tutti
Per stabilire regole del gioco più eque
di Juan Somavia*
Al Campus di Torino, dove si studia il «lavoro decente»
di Niloufer Mukhi*
Resistenza e riforma
Dharam Ghai
*
Un impegno solenne per tutti i lavoratori
di Jean-Jacques Oechslin*
La nuova dimensione dell'azione sindacale
di Phil Jennings*
Una scuola per resistere alla globalizzazione
di Enrico Cairola*
|